/ Jan 03, 2025

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INTERVISTA SGARBI SU GINO DE DOMINICIS

intervista Sgarbi su Gino De Dominicis Montale Biennale di Venezia Morandi carattere borghese sironi Noveceneto sembrava non appartenere alla categoria dei pittori suoi colleghi de dominicis

di Marta Massaioli

editing di Sanzio Balducci

Intervista Sgarbi su Gino De Dominicis

Marta: Sei stato un grande amico di Gino De Dominicis.

Sgarbi: Grazie.

Marta: E, sotto certi aspetti, sei stato una delle persone più vicine a lui sia per stile di vita che per concezione dell’estetica; quali sono, secondo te, gli elementi che rendono Gino De Dominicis ancora così incredibilmente attuale per le nuove generazioni?

Quindi, le figure non sono poi tante che abbiano questa dimensione di vita totale: D’Annunzio, Carmelo Bene, De Dominicis, io… in una dimensione però più sofisticata, perché non sono un artista e quindi ho scelto un lavoro impiegatizio come quello di critico che ha il suo simbolo in Barilli, e l’ho interpretato in una dimensione invece eroica, poetica. Però che un critico faccia così sarebbe abbastanza inusuale; l’artista lo deve fare, è utile che lo faccia, ed è giusto che non viva nella dimensione miserabile come quella di Morandi, sia pure rispettabile.

Un critico è uno che sta a osservare quello che fanno gli altri, e che dovrebbe casomai esser defilato. E dunque, dicevo, stile di vita e concezione estetica. Dello stile di vita abbiamo detto; il caso mio è abbastanza anomalo, ma così è capitato. In tutto il Novecento non c’è nessun critico che abbia vissuto come D’Annunzio; e non c’è nessun critico che abbia vissuto – se pensiamo a Crispolti, Barilli, Calvesi – come De Dominicis, se non Berenson.

Berenson è stato un critico che ha capito tutta l’arte antica, e che era il parallelo di D’Annunzio, e io posso essere il parallelo di De Dominicis. Quindi, nel tempo che ci è stato dato, che, diciamo, è la seconda metà del secolo scorso, che è il tempo della vita di Gino e in gran parte della mia, abbiamo rappresentato qualcosa che stava in una postazione analoga a quella di D’Annunzio e Berenson.

Però, naturalmente, mentre quelli erano motivati da una storia che imponeva loro di essere D’Annunzio e Berenson, noi abbiamo dovuto decidere di esserlo in un contesto miserabile. Lui si era inscritto ed elevato con una grande statura, come un’aquila, e io ho provato a fare lo stesso in mezzo al mondo della critica, ma in tempi che ormai erano degradati, partendo anche dal grande pensatore e filosofo e poeta come è stato Montale, che non capì il gesto artistico di De Dominicis alla Biennale, nonostante che fosse il migliore della sua generazione; figuriamoci gli altri!

Per cui ciò che distingueva l’estetica e l’impresa artistica di De Dominicis era che lui sembrava non appartenere alla categoria dei pittori suoi colleghi. Cioè, poteva anche parlarne, ma era come se li considerasse dei nani. E in questo devo dire che in quegli anni Sciascia aveva detto una cosa molto lucida, che mentre tutte le categorie sociali hanno al loro interno delle somiglianze – uno dice: avvocato, notaio, professore, ingegnere, onorevole, e ognuno ha le sue caratteristiche – l’intellettuale è tale (in questo caso parlava solo dell’intellettuale, non dell’artista) perché è diverso da tutti gli altri intellettuali; quindi, diceva Sciascia “Se per la strada mi chiamano ‘intellettuale’ non mi volto”.

Questo è, credo, quello che pensava nei suoi rapporti con gli altri artisti Gino De Dominicis: che gli altri saranno anche stati artisti, ma non c’entravano niente con lui. Quindi lui non aveva rapporti con i critici: non li guardava, non dall’alto in basso, li guardava a distanza di chilometri. Gli altri artisti, come Cucchi o Paladino o Chia, sì pittori, non colleghi. Ma quando gli parlavi, non era che lui avesse l’atteggiamento di chi si sentiva superiore: anche se lo era.

È un po’ come il gioco di parole fra me e Berlusconi quando lui disse, arrivato in Parlamento ai deputati che stavano con lui: “Qui non si può lavorare, non si fa niente, perché è tutto tempo perso!”, tutte cose che dicono molti che arrivano in Parlamento e vedono la lentezza del Parlamento e lui disse: “Dovete capire che io ho un complesso di superiorità”, e io gli risposi: “Sono superiore, senza complessi”.

Questa battuta rispecchia, mutatis mutandis, lo spirito di De Dominicis, il quale era superiore naturalmente, non è che volesse fare il superiore, oppure volesse sentirsi superiore, oppure volesse guardare gli altri dall’alto in basso.

Era così, e lo capivi andando nelle sue case, andando a Venezia a Ca’ Donà dalle Rose, dove lui stava spesso, andando a San Pantaleo, dove aveva la sua casa poco lontano dalla mia… questi spazi grandiosi, spazi sacri, cioè voglio dire sacro dell’arte, come si vede in queste opere che abbiamo alle spalle e di fronte: c’è una sacralità! Quale artista ha rappresentato il sacro nel Novecento? Nessuno.

L’unico forse che l’ha rappresentato per caso è Fontana, perché ha fatto il taglio che in qualche modo segna qualcosa che rimanda a un mondo che è oltre la pittura; fuori d’Italia Rothko: entrambi però in una dimensione di estrazione.

De Dominicis invece in una dimensione di sacralità della storia: i sumeri, il mondo antico che tornava vivo, le figure eroiche di divinità espresse nei suoi quadri da mute sagome. Per cui io posso ovviamente tentare di individuare, da critico, un percorso dell’arte sacra e dell’idea del sacro nel Novecento. L’ho anche fatto; tra l’altro ho guidato la ricostruzione della cattedrale di Noto. Ricordo artisti formidabili, come Fieschi, che avevano una idea cristiana che cavavano dalla pittura. Però sono fenomeni o marginali o isolati o comunque legati a una dottrina; mentre l’idea del sacro di De Dominicis era un assoluto.

Lui era come un Bronzo di Riace, un eroe antico, una figura ieratica, e questo gli veniva naturale. Per cui quando ad un certo punto c’incontriamo lui non mi vede come un critico ma apprezza il mio pensiero, io apprezzo i suoi.

È strano che quindi nasca un’amicizia che non è basata sullo specifico delle proprie attività, perché sarebbe normale che un critico è amico di un artista; così capitava tra Longhi e Carrà, oppure è naturale che l’artista abbia un critico di riferimento. Ma lui non aveva in me un critico di riferimento. Purtroppo il suo critico di riferimento era un suo amico che si era autonominato critico. Nel caso mio, neanch’io ero il suo critico: ero uno il cui pensiero talvolta coincideva con il suo. E questo riguarda lo stile di vita.

Quanto invece alla visione estetica, basterebbe ricordare quella frase che lo rende memorabile e che lo stesso Stefano Malatesta ricorda nel breve racconto della sua vita. ed è una cosa che molti hanno Gino, a proposito dell’ideologia così dominante nel mondo dell’arte, dove lui anche sul piano politico non aveva affatto idee ovvie o prevedibili o conformistiche, a chi gli chiedeva: “Qual è la tua posizione rispetto all’arte contemporanea?” – e chiunque avrebbe detto: “Mah, la mia posizione è metafisica, concettuale”, qualunque cosa insomma che ha a che fare con un pensiero – “Ma, rispondeva lui, in piedi quando debbo dipingere dei formati grandi, seduto quando debbo dipingere dei formati medi o piccoli”.

Era questa forma così intelligente di rispondere a una domanda come quando, sempre sullo stesso pensiero, diceva che gli antichi siamo noi perché siamo più vecchi. Allora è chiaro che l’autore, non so, Fidia ha duemila e cinquecento anni meno di noi, quindi lui è più giovane; e questo gioco di specchi, questo rovesciamento della cronologia è un’altra forma di intelligenza, come ogni battuta fulminante di Gino De Dominicis.

Quel pensiero che pretendeva di rispecchiarsi nella sua vita e rendeva il rapporto con lui una rapporto assoluto per capire la sua dimensione dell’arte in fondo è rimasto nelle sue opere; cioè, lui non è né superiore né inferiore alle sue opere. Alcuni artisti possono avere avuto dei gesti così teatrali, come Oscar Wilde, da andare oltre le loro opere, altri nelle loro opere hanno detto tutto quello che non avevano detto nella vita, vedi Morandi.

Guardando le opere di De Dominicis sembra proprio che lui sia stato mirabilmente in grado di cavare questa sua idea assoluta dalle sue opere, che sono opere alte, solenni, severe, importanti, dense di pensiero. Quindi, ha avuto anche questa intelligenza. Non è morto lasciando dietro di sé la nostalgia di qualcosa d’incompiuto. Anzi molto ha compiuto.

E in questo senso forse quello che gli assomiglia di più, benché De Dominicis fosse un tantino più grande, e l’unico autore del Secondo Novecento a cui ho dedicato un’attenzione specialistica, è Domenico Gnoli.

Domenico Gnoli (1933-1970), vissuto solo trentasette anni, dopo aver fatto illustrazioni bellissime, ad un certo punto capisce che deve proseguire verso una sintesi assoluta, e fa queste opere che sono ingrandimenti di dettagli, che sono le sue opere più note, e più celebri, che io ho guardato con molta attenzione; però c’è anche in lui, che pure è così intelligente, un limite di decorativismo che non c’è in Gino. Gino è proprio un pensiero puro che si cala nelle sue opere, e lo rispecchia pienamente: quindi è

come se fosse vivo; è vero che non è morto, ogni grande artista non muore. Ogni artista magari è un po’ inadeguato o comunque nelle sue opere non riesce a mettere tutto quello che poteva mettere della sua impresa umana.

Quindi sul piano anche delle valutazioni estetiche io sono non il suo critico ma un estimatore della sua statura, della sua elevazione, del suo stare al di sopra della mischia degli altri, che pure in quegli anni sono stati un po’ più vecchi di lui, Schifano, Festa, Angeli: alla fine, un pochino… piccoli rispetto alla sua statura.

Non parliamo della Transavanguardia: tolto Cucchi che ha una sua potenza tellurica, sono artisti anche simpatici, ma molto regolativi, molto ripetitivi, molto fragili. Quindi Cucchi, che anche lui era marchigiano, può avere qualcosa che lo avvicini a De Dominicis, e questo gli viene fuori dal rapporto con Scipione che è stato folgorante in trent’anni della sua vita. Ma insomma Cucchi può essere l’unico della sua generazione che gli si può accostare. Per il resto lui giganteggia. Quindi quanto gigante, siamo qua a indicarne l’evidenza di quella statura e a vederlo davanti a noi come un monumento dell’arte del Novecento.

Marta: De Dominicis non amava definirsi un artista concettuale, tanto che scherzando diceva che l’unica arte concettuale da lui preferita erano le donne che si chiamavano Concettina… Gli americani adorano l’opera di Gino De Dominicis; eppure notoriamente hanno un’arte che è concettuale, minimalista. Secondo te perché questo interesse?

Sgarbi: Perché… C’è un errore nella definizione. La parola ‘concettuale’ nella sua etimologia, e poi anche in quello che è la conceptual art nella specifica identificazione di uno stile, è una parola che per se stessa allude all’intelligenza, al pensiero. Quindi, si direbbe arte concettuale arte di concetti. Invece l’arte concettuale è un genere con cui si esprime un’arte fredda e tutta di testa.

La confusione, e la ragione dell’equivoco in favore di Gino, è che lui è un artista filosofo, cioè lui non è un artista che racconta, ma è un artista che pensa; non descrive, non illustra. Questo è il limite forse dello stesso Gnoli che bene o male, anche se il suo è un alto pensiero, illustra e descrive qualcosa.

Quando vediamo le opere di Gino De Dominicis, anche l’uso del fondo oro, che nessun pittore ha usato più dalla metà del Quattrocento, quello di Sassetta, quello di Masaccio, quello di Masolino, e anche quello di Piero della Francesca, il ritorno a questo assoluto e a questo spazio senza profondità, senza prospettiva, proprio dell’oro, dà il senso di un pensiero altissimo.

Quindi, quello che noi equivochiamo, che viene equivocato come arte concettuale, è arte di pensiero; e allora vedendo quanto assoluto di pensiero c’è in queste opere, può nascere in qualcuno l’idea che Gino De Dominicis sia un artista concettuale: che lui respingeva perché lui sapeva che era limitativo. Se un grande filosofo si dovesse esprimere in pittura, si esprimerebbe con un pensiero equivalente: salvo poi, come capita, talvolta gli artisti, i filosofi o i letterati o gli scrittori, che fanno i pittori, sono sempre un po’ decorativi.

Nel caso di Gino è l’opposto: lui è un artista che è all’altezza di un filosofo, e quindi la sua natura concettuale è nell’avere espresso dei pensieri assoluti di cui le opere sono evidente rispecchiamento, e l’assoluto è addirittura anche nella passione con cui come nessuno ha usato il fondo oro e la foglia d’oro. Questo va detto perché è la ragione dell’equivoco.

Quindi lui è un artista di pensiero. Il suo pensiero è talmente denso che le opere lo devono assumere senza averne però il residuo di un decorativismo; perché il fondo oro potrebbe anche essere qualcosa che richiama il mosaico, che richiama la bella decorazione… Invece no; il fondo oro è Dio, in lui; ed è una dimensione di Dio che non corrisponde neppure al Dio cristiano: corrisponde a Dio come entità ch’è sopra e dentro di noi.

In questo egli è un artista sacerdote; e quindi il culto che egli ci indica è un culto di una ragione assoluta ma anche di un pensiero che guida gli uomini che hanno qualcosa da dire. Infatti, in gran parte gli artisti del Novecento non hanno niente da dire, sono decorativi, sono tristemente decorativi. In questo devo dire, su un versante diverso, quei pochi artisti come Bacon come Varlin hanno mostrato una potentissima vitalità umana, una vita più forte della forma.

E aggiungerei Cremonini, un altro grande pittore dimenticato. Ci sono due espressioni dell’arte: l’arte applicata e l’arte implicata. L’arte applicata è quella di tutti, di Andy Warhol, di qualunque artista che gioca… prende un manifesto, prende la Coca Cola, e mette… inventa qualcosa che… una, come dire, rappresentazione estremamente decorativa di qualcosa che tu raccogli della società dei consumi.

E questo lo fa il novanta per cento degli artisti; sono in gran parte degli artisti applicati, che usano la fotografia, la pubblicità. Si definiscono creativi, si confondono con i creativi… e non sono creativi per nulla, in realtà. Dall’altra parte sta l’arte detta implicata, quella appunto di Bacon, di Freud, di Varlin, di Giacometti, in cui tu senti che esiste ancora un uomo, il cui tormento, la cui tragedia, la cui crisi è così potente che l’opera ne trattiene una dimensione dolorosa, drammatica.

Quando uno pensa a Bacon, a Freud… capisce tutto questo. Ma Gino De Dominicis non era né applicato né implicato, era al di sopra di queste due categorie. L’arte implicata può avere una dimensione istintiva, irrazionale, dolorosa: è quella che piaceva moltissimo a Testori; ti parlo di un critico grande, abbastanza diverso da me, che sono più freddo nella valutazione delle cose e per questo più vicino a De Dominicis.

L’arte applicata è quella di tutti: fa delle cosine… dei giochini da bambini deficienti, ed è rappresentata dal novantacinque per cento degli artisti contemporanei, cioè da quelli che giocano con il mondo dei consumi, e in questo gioco consumano anche le loro opere.

Basti pensare ai lavori più celebri come Cup Campbell’s Soup o la Coca Cola di Andy Warhol, che pure sono cose importanti a testimoniare quel rapporto. Poi, come ho accennato, c’è la dimensione di un’arte né applicata né implicata. Ed è una dimensione divina: questo avviene quando l’artista, come Michelangelo, ed è questa la statura a cui si può avvicinare De Dominicis, dimostra che Dio esiste. Ora, uno può essere anche ateo, ma quando vede il Giudizio universale gli viene in mente che forse Dio esiste, perché la dimostrazione di Dio è in un’opera così straordinaria, che se non ci fosse Dio come farebbe quest’opera a esistere?

E sono pochi gli artisti di cui si può affermare questo: sono il Beato Angelico, sono Giotto, Michelangelo, Piero della Francesca… A questi può essere affiancato – per la sua arte né applicata né implicata – Gino De Dominicis, e forse più di tutti può essere avvicinato a Piero della Francesca, perché in Piero ti accorgi che la pittura è pensiero.

Io sono stato anche recentemente a vedere gli affreschi di Arezzo, e tu vedi che quelle cose che lui dipinge non sono storie ma sono pensieri, sono ordine del mondo, sono misura della relazione tra lo spazio e gli uomini, sono una dimensione assoluta, ideale. Ecco, questo spirito così assoluto è molto evidente in Gino De Dominicis; e non può essere chiamato concettuale ma divino. Questa dimensione lo rende più grande sia degli artisti applicati, e questo è facile perché sono quelli che tutti vediamo: è il consumo, il consumismo dell’arte contemporanea. E più grande anche degli artisti implicati, di cui Bacon certamente è l’esempio più clamoroso.

Ma quell’implicazione però comporta anche un po’ troppo di coinvolgimento, e Dio non si può coinvolgere nelle cose. Quindi un grande artista non può essere né applicato, perché sarebbe un miserabile, né implicato perché vorrebbe dire che è un uomo. Chi ha una dimensione divina il cui pensiero va oltre il rapporto tra gli uomini e quello che gli uomini sono e fanno e dicono, è un artista assoluto; e quando uno pensa a Piero della Francesca pensa a un pittore che va oltre la pittura e rappresenta nelle immagini un pensiero assoluto.

Ecco, questo tipo di visione dell’assoluto, rappresentata dalla forma, è la grandezza di Piero e la grandezza di Gino De Dominicis, anche se fra i due non ci sono affinità formali. Chi non è riuscito ad arrivarli è un grande artista che guardava a Piero come un maestro, e in parte è filosofico ma lo è in modo estetizzante, ed è Balthus. Balthus interpreta Piero della Francesca ed è un grande artista ma si ferma prima perché è troppo compiaciuto.

In Gino non c’è neanche compiacimento: la cosa nasce come una proiezione d’un pensiero assoluto, e questo è la sua caratteristica così singolare e anomala in tempi di confusione, di moltiplicazione, di eccesso di creatività: tutti che fanno qualcosa, alcuni sono pubblicitari, alcuni sono creativi, alcuni sono artisti, una quantità di imbecilli che non farebbero bene neanche un tavolo, che però si fanno chiamare artisti.

Marta: Secondo te perché ci sono alcuni temi importanti, l’ombra e l’invisibilità? Mentre tutti erano concentrati sul concetto, lui inventa l’opera invisibile. In queste opere in effetti ci sono le tavole che poi sembrano ombre: una che riflette nell’altra, una che è il doppio dell’altra, al negativo, la prospettiva, il grande e il piccolo, l’ombra e l’invisibilità.

Sgarbi: No, potrebbe essere il titolo d’un libro, e niente è più presente e più visibile dell’invisibile. Io, per dire la difficoltà di esprimere Dio nel Novecento, mentre ciò è stato possibile nel Quattrocento con Piero della Francesca e forse anche con Raffaello, ho scritto un libro che si chiama L’ombra del Divino nell’arte contemporanea.

Non mi sono riferito a Gino De Dominicis, che pure ho citato, perché mi riferivo all’ombra intesa in senso limitativo: cioè, non c’è più una luce e un corpo in chi fa un affresco o un soggetto religioso ma c’è un’ombra di quello che poteva essere, tanto che nel dover rifare l’affresco della volta della cattedrale di Noto, l’autore che ho scelto che è Frongia ha obbedito alla mia richiesta di farlo più o meno identico a un affresco tiepolesco.

Quando nel dover fare la ripetizione o la copia, Frongia temendo di essere un puro illustratore, gli è venuto in mente di fare un’ombra che sdoppiava le figure; come dire: “Sì, è una replica, è un rifacimento, però è come se fosse una immagine che si specchia in un’altra, l’ombra dell’immagine perduta”. Poi alla fine non l’ha fatta; è venuta una decorazione bellissima, ma che appunto è una decorazione.

Bisogna vedere se il pittore che esprime quello che noi vediamo in Gino De Dominicis è un pittore che ha dimestichezza con le ombre condivisibili come presenze, non come l’ombra incorporea di un corpo che la proietta, ma come una realtà vera ch’è dietro le cose: l’ombra delle cose come l’anima e come il noumeno. Ecco, in questo senso la ricerca dell’invisibile – l’invisibile e l’ombra, i due termini che tu hai usato – è un elemento essenziale della poetica di Gino De Dominicis perché rivela quello che non si vede.

La pittura non ha il compito di riprodurre la realtà, com’era stato con Caravaggio e dopo Caravaggio, ma di far vedere quello che non si vede, di far vedere l’invisibile. In questo forse l’artista che non abbiamo ricordato, che ha più affinità con il procedimento o il processo creativo di Gino De Dominicis è Odilon Redon.

Odilon Redon è un pittore che dipinge solo anima; non li vede, i corpi. I corpi visibili sono non visti e quello che è invisibile è visto. Ora in questo procedimento, alla fine di un secolo, circa cent’anni dopo, ottant’anni dopo Odilon Redon, Gino De Dominicis capisce che l’invisibile è l’unica cosa che un artista può cercare di rappresentare.

Ché il visibile si vede, e per il visibile ci sono prima Caravaggio e poi la fotografia. Se ho una fotografia, che bisogno ho di fare un ritratto, di fare un paesaggio, di fare una natura morta? Devo rappresentare quello che non si vede, quello che non c’è, l’anima. È questa la grandezza dell’intelligenza di Gino De Dominicis rispetto ad altri che invece hanno continuato a riprodurre quello che era già stato ampiamente riprodotto in una quantità di capolavori.

E quando Gillo Dorfles rifiuta un ritratto di un pittore che si chiama Andrea Martinelli non è perché non sia bravo Martinelli in una deriva sia pure diminutiva, forse, di Lucien Freud, che non so neppure se avrebbe fatto il ritratto di Gillo Dorfles, o Gillo Dorfles l’avrebbe accettato. Immaginiamo che Freud dipinga Gillo Dorfles con la sua faccia da tartaruga, e immaginiamo che trasfiguri quel volto dalla realtà a un’idea, a un’anima che è quella di una tartaruga, e allora forse, anche se non è mai accaduto, Freud poteva dipingere il volto di Dorfles.

Ma Dorfles invece dice no al giovane Martinelli non per snobismo, dice: “Ma che bisogno c’è che tu mi faccia un ritratto minuzioso quando c’è la fotografia?”. La fotografia gli entra dentro, ne fa vedere tutte le rughe; non c’è bisogno d’un disegno, di soffermarsi con la minuzia di questo pittore o di Omar Galliani che usa la grafite, perché è inutile affaticarsi quando una macchina fotografica ti fa un’immagine, come può farla Weston, Irving Penn, Mapplet.

E allora questa idea di rifiutarsi a un pittore realista da parte di Gillo Dorfles è una intuizione critica che dice: “L’artista del mio tempo deve essere almeno come Gino De Dominicis, dev’essere un artista che non illustra ma dice quello che non si vede, e altrimenti non può essere grande come sono stati grandi i grandi del passato”.

Non per caso Dorfles che ha sempre amato l’arte astratta mette un solo figurativo, che era suo compagno, morto poi in un campo di concentramento, ed è Arturo Nathan. Se noi guardiamo bene l’opera di Arturo Nathan, che pure è molto importante ed è un’opera vicina a quella di De Chirico: pittore di pensiero, della pittura metafisica, un altro pittore che può essere accostato a Gino De Dominicis perché dipinge anche lui l’invisibile.

Difatti cosa sono quelle immagini, quelle strade vuote, quelle piazze deserte, se non un pensiero cercato dietro quello che si vede?

Ebbene, in questo percorso, amico di De Chirico è Nathan, e se noi guardiamo le opere di Nathan in cui si vedono frammenti di archeologia, naufragi, ci rendiamo conto che la pittura è un po’ esile, nel senso che non ha una tecnica assoluta – e che forse anche in questo è più lucido nel ridurre la tecnica a un’esecuzione assolutamente rigorosa e fredda Gino De Dominicis – ma che quel pittore, questo Nathan, è uno dei pochi che può essere affiancato a Gino De Dominicis perché appunto rappresenta l’invisibile, rappresenta quello che è oltre il mare, quello che è oltre i naufragi, in una dimensione veramente più romantica, perché è un pittore che lavora negli Anni Venti Trenta…

Però, siccome è molto amato da Dorfles, Dorfles ha rifiutato il dipinto di Martinelli, Dorfles non avrebbe rifiutato un dipinto di De Dominicis, che non aveva mai fatto un ritratto, se Gino De Dominicis avesse detto a Dorfles: “Voglio farti un quadro”.

Ma quando mai uno può immaginare che Gino dicesse a qualcuno “Ti faccio un ritratto”? Io son pieno di ritratti di artisti che per compiacimento, per lusingarmi, per limite della loro mente, mi hanno fatto ritratti; ma non potevo neppure immaginare che l’idea del ritratto passasse nella mente di Gino De Dominicis, perché lui avrebbe rappresentato la mia anima non la mia faccia: non avrebbe mai chiesto “Posso farti un ritratto?” né io avrei chiesto a lui di farmelo.

Allora, di un artista come questo, Dorfles avrebbe compiaciuto che il dipinto che la sua faccia ispira non fosse un ritratto ma fosse un pensiero di Dorfles. Quindi, fra i due, vista l’intelligenza di questo antichissimo critico, ci sarebbe stata un’intesa, e forse c’è stata.

Nel caso mio, non c’è stata su un piano critico ma su un piano umano, nel senso che io condividevo istantaneamente e per affinità interiore qualunque scelta lui facesse nell’arte, perché sembrava una scelta che se anche poteva non piacermi del risultato estetico – e forse qualcuna poteva anche non avermi particolarmente stimolato – il principio generale era così alto che io non potevo non compiacermi di questa elevazione – che è la parola più giusta che si può usare per lui – con cui lui affrontava il rapporto con l’arte: come chi sta in piedi in chiesa, come chi non si permette di essere scomposto, come chi sta sull’attenti davanti a un simbolo.

Lui stava sull’attenti davanti all’arte per essere all’altezza della grandezza divina dell’arte. E questo si sente nelle sue opere, ed è una forma di grandezza che non ha confronto nel Secondo Novecento. Quindi occorre risalire a De Chirico, occorre sfiorare Fontana, occorre superare Gnoli. In tutti gli altri artisti, anche nei più appassionati, c’è un residuo di illustrazione, di decorativismo, di narrazione, un residuo di una realtà che si riflette meschinamente nell’immagine, anche nei più grandi. In lui c’è questo assoluto, l’invisibile, l’ombra, che diventano protagonisti e assumono nell’arte una presenza fisica. Queste

opere sono fisiche, perché sono opere, però in realtà non sono fisiche, sono spirituali, e sono idee. Eppure sono fisiche, sono quadri, stanno bene fra gli altri quadri, però hanno una forza che va oltre il residuo materiale della loro esecuzione, sono come pensieri puri; e di questa purezza pochi artisti sono stati titolari.

Ci sono pochissimi artisti del Novecento che affrontano l’assoluto senza essere degli imitatori di Michelangelo, come Sartorio, per esempio, oppure De Carolis. Sartorio è un grande e meraviglioso illustratore, bravissimo, ma De Carolis, anche lui marchigiano, è un neo-michelangiolesco, riprende la forma di Michelangelo e non va molto più in là. Ci sono poi altri artisti assoluti: forse Balthus…, c’è Hopper. Hopper è un artista americano che può entrare nella dimensione di quelli che descrivono, davanti alle cose, degli assoluti che sono la verità dell’anima, dello spirito di questi personaggi silenti, isolati in questi piani, questi decimi… ventesimi piani di grattacieli…

Però, ecco, sono comunque un numero molto limitato di artisti. Gli americani amano De Dominicis; è una specie di intuizione assoluta e sintetica che un artista è grande quando si occupa di Dio ovvero del mondo proprio dell’invisibile. E oltretutto, come insegna la religione musulmana e come insegna quella ebraica, di Dio non si può dire nulla. Un artista vero non può dire nulla di Dio. Può tentare di lasciarci l’impronta. Ecco, il tentativo riuscito di De Dominicis: di darci un’impronta di Dio, per quello che di Dio possiamo dire, cioè niente.

Marta: Grazie.

Roma, aprile 2016

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